Temporale.

Fulvio Romanin
4 min readJul 14, 2019

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“C’è un temporale in arrivo senti l’elettricità”

C’è una intera coltre di nuvole nere cariche di pioggia che separano la terra dal torrido sole estivo — si muovono con minacciosa, arrogante lentezza, come un esercito in parata. Dal terrazzo a nord di casa mia il panorama è magnifico, posso immaginare la stessa tensione nel mesozoico, con una vegetazione ed una fauna completamente diverse, quasi un altro pianeta, sempre qui, in un altro tempo remoto.

Ho mal di testa da tutto il giorno, è una domenica catatonica; anche Beatrice sta poco bene. Ho questo mal di testa sordo che mi spegne il cervello: la centrifuga di pensieri, impegni, sogni e doveri in questo momento è ferma, il rumore di fondo è assente. Non ho voglia di pensare.

La casa nuova è magnifica, è come abitare al Louisiana, in Danimarca. Il paragone non è nemmeno tanto azzardato, credetemi. Ho mal di testa ed ho bisogno di aria. Svogliatamente, indosso le scarpe, i pantaloni, la maglietta dei Dlh Posse fatta nello stesso mesozoico di cui sopra, ed esco in paese.

Abito qui da poco più di cinque settimane, dove è ancora tutto terra incognita, tutto da scoprire: quando non conosci un luogo, non ne conosci i gesti, i sentieri, devi ancora farli tuoi, assimilarli, ed è un cercare di capire chi è passato prima di te, scoprirne le tracce e le consuetudini. Mi sento un nativo americano sulle tracce di una qualche preda.

La mia via è bellissima, e sbocca in una strada piccola ma piuttosto trafficata: una signora anziana mi guarda dalla finestra, con il sorriso di chi non tiene più traccia del correre del tempo, perché ha già tanto tempo accumulato dentro di sé. La saluto con la mano, mi ricambia, teneramente. Forse sta solo guardando il mondo scorrere, non sembra avere fretta, aspetta un altro saluto da un altro estraneo, forse.

Giro in una strada larga ma apparentemente poco vissuta: le case qui sono gramigne di mattoni e lamiere anni ’70, qualcuna con un cartello vendesi poco seducente. C’è una scuola religiosa davanti, con una insegna circolare a dir poco bizzarra — in altri tempi sarebbe stata valutata per verificarne l’ortodossia.

Nella piazza del paese c’è un negozio di barbiere, apparentemente abbandonato: sedie e interni sono ancora in buone condizioni, ma l’intero luogo ha l’aria di essere diventato solo un deposito oramai, ipotesi avvalorata dall’assenza di insegna.

La mia testa galleggia tuttora in questa specie di apatia per me inusuale: guardo, sento, apprendo con una parte del mio cervello che non uso spesso.
Non sono perso in mille altrove di preoccupazioni del domani e di progetti.
Sono proprio qui, ora.

C’è un albero plurisecolare, bellissimo, dentro un giardino: sarà alto cinquanta metri. Gli faccio una foto, ma il risultato è una macchietta luminosa insulsa nel mio telefono che nulla ha della reale maestà dell’albero.
La realtà batte il digitale, da qualche parte si sente un tuono, arriva il temporale.
C’è una casa piena di anatre, ed uccelli da cortile vari. Resto attonito, come se la natura stessa fosse innaturale.

Le case dei vecchi le vedi subito, hanno il segno di porte aperte e chiuse e figli entrati ed usciti ed oramai lontani, hanno lo scorrere del tempo che impregna le travi ed i mattoni: qualcuna ha persino il cancello aperto, e le edere hanno conquistato quel cemento dilavato che per tanti anni mani amorevoli hanno curato. Le vedi, le case di chi non c’è più, ce n’è una a pochi metri da casa mia: hanno la stessa energia che per qualche tempo è stato quello di casa dei miei, dopo la loro scomparsa, o forse il segno dell’assenza di questa energia, come un guscio d’insetto vuoto, che ha portato in sé la vita per tanto tempo ed ora si trasforma in qualcos’altro.

Gli appartamenti non danno la misura del tempo: sono cellule di uno stesso organismo che si rinnova, cellule contigue e se una muore viene sostituita subito, senza clamori. Non come le case: le case sono un nido, sono il sogno dei genitori da cui i figli spiccano il volo, e a volte restano. Qualche figlio cura il giardino che loro hanno cresciuto, e lo mantiene; altri seguono le proprie costellazioni.

Sono di nuovo nella via trafficata, per rientrare nella mia via: qualche goccia avvisa che l’elettricità sta per sciogliersi in una attesa pioggia benedicente. Una signora sulla sessantina spinge un secchio delle immondizie appogiandovisi come se fosse un deambulatore: l’ho vista ieri che potava le siepi a mano fuori, in mezzo al traffico. Mi parla d’improvviso come se fossimo vecchi amici che riprendono un discorso: “si cammina meglio adesso, vero?” “sì, decisamente” rispondo io, pure poco socievole per il mal di testa. “È che tutte queste macchine fanno puzza” mi sorride triste “sono io a prendermi cura di tutto, qui”. “Certo, signora”.
L’ho chiamata signora, forse ho rotto la magia, forse non parlava nemmeno a me ma a sé stessa, a quel senso del dovere che tiene unite le cose e sconfigge la naturale entropia dell’universo. Si gira, senza nemmeno salutare, rientra.
Percorro ancora la mia via, ne guardo l’asfalto e le sue pieghe, mentre la pioggia tintinna alle mie spalle, musicale. Qualcuno non ha strappato le erbacce dall’asfalto, non ritiene la via casa sua. Sono arrivato, la testa mi fa un po’ meno male, e solo come varco la soglia e saluto Beatrice il diluvio fuori comincia.

“C’è un temporale in arrivo nella mia città”

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Fulvio Romanin
Fulvio Romanin

Written by Fulvio Romanin

Ensoul CEO, old school bboy, part time essayist and novelist. A curious soul overall.

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