Sulla pornografia dell’informazione
Abbiamo finalmente trovato un pianeta B, distante pochi anni luce da noi: ma sono i social, e questa è la cattiva notizia.
Si fa un certo qual ozioso parlare della svolta social del pianeta Terra: è uno degli argomenti principe dei social stessi se non il più persistente, visto che il resto delle diatribe dura il volatile tempo di una indinniazione appena — cellule identiche nella forma, che dopo poche ore con schemi sempre uguali vengono rimosse altrettanto velocemente dalla memoria collettiva. Da quando l’umanità è stata calata in blocco nella rete, spesso senza nessuna preparazione al suo linguaggio — specialmente nel periodo del lockdown dove rimanere in contatto con gli altri equivaleva a sopravvivere, ad aggrapparsi ad un barlume di sanità mentale essere social non è stata più una scelta, ma una necessità, quasi un obbligo. Social inteso nel senso più largo, come il telefono che mia suocera lascia avvedutamente in salotto per evitare il crepitare di buongiornissimi già alle sei e mezza del mattino — WhatsApp delle amiche del corso di ballo che hanno imparato a tenersi compagnia l’un l’altra con la tecnologia.
Non stiamo parlando quindi, sia chiaro sin d’ora, della singola piattaforma, della singola applicazione, o a qualche fantomatico colpevole: da WhatsApp a Clubhouse a Tiktok, è l’intero insieme di strati di informazione il soggetto, per molti ancora un contenitore indifferenziato. Quindi non stiamo parlando dell’intera internet, in un fremito luddista, ma solamente di una sua appariscente schiuma: uno strato tanto concreto da essere indistinguibile da internet stessa ad occhi non educati.
Ad Ensoul lanciamo un sito per bambini: le pagine sono un florilegio di illustrazioni pucciose ed inoffensivi cartoni tenerosi color pastello. Lanciamo la pagina Facebook, ed improvvisamente, dopo pochi post appena appaiono i soliti geni che NON CIELO DICONO e che il GOVERNOBBASCHTARDO ci chiude in casa e ci ruba il béne.
Sui post di un sito per bambini; ma i bambini non c’entrano, i géni non hanno nemmeno letto, valutato il luogo: non esiste più attenzione al contesto — il contesto è internet, visto come un collettivo, uniforme quarto d’ora di odio Orwelliano: tutto vale tutto, ovunque.
Facebook se ne rende conto quando tolgo il follow a tutta una serie di pagine di quotidiani, piagate dai commenti rabbiosi di sciami di partigianerie di quella o questa parte: mi appaiono al posto loro i commenti dei miei amici sulle promozionate dei vari psicopatici di turno — sbarri le porte ed entrano dalle fottute pareti.
Che la presenza sui social fosse, per dire, artefatta, lo sapevamo già: è dai tempi di MySpace che le vite online sono più colorate, brillanti, effervescenti dei real self. Che il mite vicino sessantenne che di persona saluta a mezza voce e occhi bassi davanti ad un computer si trasformi in una belva xenofoba e giustizialista lo sapevamo già. Che la frequentazione online avrebbe portato ad una polarizzazione della politica è una delle conseguenze più tristi e concrete sulla vita di tutti i giorni: oramai, è brutto ma realistico da dire, in Italia, e non solo, non esistono più veri partiti politici, ma solo generici movimenti di opinione che si spostano inseguendo il consenso dalle proprie antenne online piuttosto che crearlo attorno ad idee proprie, chi più chi meno.
L‘informazione comincia a prendere i sentieri battuti dal marketing della pornografia online: la creazione di grandi portali pornografici, ricchissimi di contenuti parcellizzati e replicati mille volte ha cancellato l’autorialità del testo, per quanto minima, irrisoria — la sua unità, ha cancellato l’attesa e la narrazione in una serie di particelle a rapido consumo i cui contenuti, svuotati dal contesto, appaiono come frammenti da rendere sempre più estremi per raggiungere una novità progressivamente sempre minore, in un anticlimax intorpidente. Le pornoattrici sono sempre più ginnaste che non donne reali: non dicono di no a nulla, non provano dolore, non hanno desideri ma solo barriere — fisiche, psicologiche, anatomiche — da infrangere. La vita reale diventa sempre più scollata dalla pornografia: il sesso online diventa circo, rappresentazione, freak show; il sesso in camera da letto viene sminuito, disumanizzato; si disimpara a desiderare, ad ascoltare.
“La realtà è quella cosa che quando smetti di crederci non svanisce” (Philip K. Dick)
Nei giorni della pandemia mi sale un sospetto: chiusi come siamo in casa, internet è la realtà, tertium non datur. Però, come nei migliori film, quando abbassiamo lo schermo del portatile o del telefono, il mondo è ancora lì, si ostina ad essere ancora lì, ed i morti nelle terapie intensive si ostinano ad essere troppi, per quanto noi proviamo ad esorcizzarli con i numeri e le statistiche, persistenti ed indifferenti alle nostre narrazioni. L’attacco alla Casa Bianca, nel suo approccio naïf ne è una dimostrazione — l’intero universo Qanon è fatto per lo più di speculazioni che non sono interessate alla oggettiva plausibilità del narrato quanto alla (presunta) felicità, alterità della narrazione. L’invasione non militare, ma di fatto più simbolica che altro dell’edificio è autoconclusiva all’interno della narrazione stessa; non c’è un dopo, non c’è una occupazione armata, un progetto reale di insediamento, lasciamo stare prendere davvero il potere — le loro armi sono gli account Instagram, la collettività del consenso, essere lì è il potere. È la foto su internet a renderla reale, a completarla come mission accomplished: il potere è preso perché può essere raccontato, il solo racconto è sufficiente alla convinzione di modificare il presente — il dopo non esiste se non nella contemplazione soddisfatta, narcisistica del fotogramma.
Lo strato di informazione galleggia sopra il mondo reale, e gli parla sempre meno, sempre più distante: le teorie complottiste fioriscono durante la pandemia, con paradigmi sempre più stravaganti, ma la cosa raggelante è che la loro controparte “ufficiale”, le “vestali del pensiero unico” per usare i loro termini, non si comportano molto più razionalmente. Persi in un delirio clickbait dettato dal vorace metronomo del profitto, le maggiori testate quotidiane online sono un fiorire di sensazionalismo e titoli ad effetto sempre più strillati ed ansiogeni; di nuovo, scomparso il contesto, funziona solo l’estremizzazione per mantenere costantemente viva l’attenzione del pubblico. Biasimarli? I giornali, le televisioni si sono creati il loro proprio inferno personale nel momento in cui hanno spalancato le porte dell’always on, del palinsesto infinito, senza pause. Non puoi pensare di popolare un sito di contenuti sempre nuovi, o un tg di ultime notizie senza amplificare l’amplificabile ed oltre: la trash tv diventa sempre più trash e attenta ad impersonificare l’irrilevante pur di avere qualcosa da narrare, da cui trarre emozioni anche platealmente finte. La percezione di allarme nella cittadinanza diventa sempre più alta anche quando la sicurezza oggettiva è invece aumentata — non importa, è la narrazione a concretizzare la minaccia in reale, anche quando la minaccia non esiste. A questo punto, se la narrazione “ufficiale” è scorretta, perché non credere ad altro, altrettanto scorretto ed inaccurato ma almeno altro?
La narrazione contemporanea fissa il suo obiettivo sul brutto, sulla contraddizione, perché è facile narrarlo, farlo comprendere e diventare notizia; non richiede sforzo e nemmeno concentrazione: trascorriamo molto più tempo a parlare di cosa hanno detto le persone stupide (o a noi contrarie) di quanto ne perdiamo a commentare quello che dicono le persone intelligenti, o dietro concetti che richiedano ragionamento ed elaborazione. Fa più rumore lo scemo del villaggio globale con un post che la conquista di Marte.
Bastano un tweet dell’onnipresente Elon Musk e la notizia della stretta della Cina a far crollare del 30% lo scoppiettante mercato delle criptovalute che fino a poco prima sembravano destinate a diventare la nuova frontiera del mercato, a portata di tutti: da bravo boomerone, i miei trenta euro comprati alla fiera dell’est digitale perché provo, tanto per vedere, diventano venti in un pomeriggio, ed io muto e rassegnato nel parco buoi. La cosa divertente è che è una guerra tra narrazioni, perché di fatto anche le valute convenzionali sono di fatto una narrazione condivisa, una convenzione, appunto: dalla fine del corrispettivo (ideale) tra valuta emessa e oro nel caveau degli stati, tutto vale tutto o quasi. La distanza tra valore reale e altrui narrato è annullata: i governi ed i potenti osteggiano le altrui narrazioni ma l’oro non esiste in nessuna delle due voci, non c’è più da un pezzo.
Comprendere se esista, o peggio ancora, se ci interessi trovare un vaccino anche da questa pornografia dell’informazione è una domanda non banale, come anche se, ancora, potremo guarire senza un rigetto completo della tecnologia, senza vivere da stiliti digitali o invece persi in una serie di mondi paralleli tutti fasulli e contrapposti tribalmente: la gente che ha smesso di sentire i telegionali durante la pandemia è aumentata, il disinteresse verso la politica ed il sociale è aumentato, se peggio non deriso dai tapìni che pasteggiano sui cadaveri di slogan gracili ed innocenti come “ne usciremo migliori” e “andrà tutto bene”. La ruota del criceto dell’iperinformazione ci ha reso dipendenti, ed il rimedio, forse, è peggiore della cura.
La realtà, da par suo, andrà avanti sorridendo dei nostri fantasiosi racconti, divisi come sono tra una narrazione iperbolica e meramente emozionale ed altri narrati invece per sottrazione, indifferenti ai fatti, sempre più solipsistici e non più sociali, e come tale non umani.
Forse la speranza per il futuro giace proprio in quel numero di Dunbar sul quale avevo già espresso le mie perplessità ai tempi, nel poter intessere un numero concreto di relazioni oggettive fatte di circoli sempre digitali ma più stretti, con un numero finito di persone, meno ovunque e qualunque: per assurdo il circolo di buongiornissimi di mia suocera potrebbe rappresentare un modello di vita digitale più sostenibile, concreta e condivisa e come tale reale di quanto non lo appaia il resto al momento — se la natura umana è quella da milioni di anni, forse chiederci uno sforzo evolutivo in tal senso — per così poco, peraltro — non è nemmeno così saggio.