(Secondo) Temporale
Fuori piove, o meglio: fuori il tempo sta cercando di raccontarmi che piove, ma è una bugia che lui cerca di millantare borbottando un po’ di vento e facendo il gradasso ribaltando l’alberello di limone che abbiamo in giardino. È in un vaso, non è che ti sei sforzato troppo, vecchio mio. Dopo tanto ciarlare ci regala poche gocce di pioggia che abbassano a malapena la canicola folle di questi giorni, e dando il minimo sindacale di tregua alla terra riarsa del nostro giardinetto che, appena tornato da Milano, non ho avuto ancora modo di bagnare (storie: sono pigro. Sono tornato ieri notte e ora sono qui a raccontarvi bugie).
Ho appena finito di leggere la seconda parte dell’assassinio del commendatore, di Haruki Murakami. Come al solito è eccezionale: riesce ad astrarti da tutto il resto, come solo i giganti sanno fare, e quando alzi gli occhi dalla carta non ti è chiaro se tu sia ancora parte dei suoi vortici onirici o oggettivamente tornato in qua, seduto sul tuo divano. Mentre leggevo, carezzavo i lungh icapelli di Beatrice, che, sdraiata vicino a me, guardava qualcosa oziosamente su Instagram lasciandosi coccolare: si è alzata solo quando ha sentito, dalla porta-finestra del salotto, il miagolare della gatta bianca del vicino, che per ragioni che non fanno parte di questa storia abbiamo chiamato Ingegner Braun.
(In treno, in rientro da Milano: “Amore, hai dato da mangiare il cibo per gatti all’Ingegner Braun? E lui cosa fa? miagola?” — respiro, rendendomi conto di parlare ad alta voce — “aspetta che circostanzio al pubblico presente che è un gatto o la gente sul treno penserà che abbiamo qualche strano fetish”. La ragazza di fronte a me ride, facendo finta di non guardarmi)
Non mi ritengo religioso, ma mi ritengo credente. Che è un po’ paradossale, me ne rendo conto. Lungo gli anni mi sono fatto delle mie idee, che sono molto molto molto pragmatiche. Mi spiego: per dire, io non credo esista una vita dopo la morte, ma credo che la vita stessa sia eterna. Ve lo spiego con una metafora vilissima e puerile, ma credo comprensibile a tutti. Immaginatevi che la vita sia come una puntata di qualcosa su Netflix (aiuto): ci sono dei momenti belli, e dei momenti brutti. E se sei molto bravo, se hai seminato bene, se hai creato una — non saprei come definirla diversamente — energia positiva attorno a te, una energia che possa sopravviverti nel ricordo degli altri e nei tuoi atti, ecco, è come se potessi ripercorrere quello stesso filmato avanti ed indietro nei punti che preferisci, per sempre. Io che sono sul divano e carezzo Beatrice in una sera di pioggia estiva tranquilla mentre leggo un buon libro. Non è di certo il sogno di tutti, ma per me lo è, è una delle mia idee di paradiso.
Mi spiego: non sono particolarmente convinto che quando questo mio guscio imperfetto si romperà finirò accanto ad una schiera di angeli con i capelli biondi che dicono “Yessa” come Crozza. Penso che il Signore, o l’energia che voi chiamerete come preferite, della mia vocetta stonata in più nel coro se ne faccia poco, e poi che noia sentirmi cantare per tutta l’eternità “Hotel California”. Penso che i ricordi che ci costruiamo grazie al nostro operato diventino loro il nostro paradiso: io che bimbo, gioco a videogiochi al laser a Vienna nel 1982, la mia prima vacanza da solo nel 1985, io che guardo l’alba sul Moncenisio mentre vado a Lione in auto a trovare un’amico, seduto sul bordo della strada, rapito dalla meraviglia, gli occhi di Beatrice che baluginano la prima volta che le ho detto “ti amo” ad Oslo, e guardarla prendere la rincorsa mentre mi dice “anche io”, e sorridiamo e ci baciamo spalancando un futuro.
Forse ora che ci penso anche American Beauty esprimeva un concetto del genere: è possibile. E a discapito dei tempi non voglio fondare la mia propria religione, per ora: il Fulvismo può aspettare. Questi sono solo appunti disordinati quando il rumore del lavoro si placa.
Poi un’altra cosa non mi convince, o meglio, mi pare forzata: in ottant’anni di vita mi gioco un’intera eternità successiva? Mi pare sbilanciato, come mi sembra un po’ bizzarro che una divinità buona trovi ammissibile vederci soffrire in eterno. Certuni teologi dicono che, alla fine, la Grazia di Dio è confluire in Dio stesso, perdendosi in lui come un fiume nel mare.
Sì, è vero: è una possibilità, e sicuramente sali di livello tipo Super Saiyan, assorbendo in questo l’intero universo però non lo so — io sono un uomo, un semplice primate con lo smartphone opponibile, e forse la cosa più naturale sarebbe non tanto cercare di essere Dio, e come tale perdere la mia umanità, o tantomeno il suo opposto, ma cercare di essere un uomo nel modo più completo e pieno possibile, con tutti i limiti e le debolezze ciò che comporta. Se poi io non sono più io allora non so se mi piace l’idea di essere migliore. Non so se vedere i Bastioni di Tannhäuser nello spazio profondo, PER ME, vale vivere gli istanti con Beatrice che gioca con il gatto in una pigra sera d’estate. Dico davvero: non lo so.
Ho letto un libro di fisica poco tempo fa, e una delle cose che mi ha fatto impressione è stato scoprire che i buchi neri — dei quali la meraviglia dell’ingegno umano è riuscita a squarciare un primo velo — sono freddi.
Il posto dove tutta l’energia dell’universo esce dall’universo — lo so, è inappropriato, ma rende l’idea — è gelido. Sembra una contraddizione in termini: come una bomba che risucchi calore ed energia. Fa pensare: forse i buchi neri sono il limite della nostra esperienza umana, dove le dimensioni diventano semplicemente troppo per quanto il nostro limitato involucro biologico può capirle. L’assenza di tempo dentro i buchi neri forse assomiglia al concetto di prima: dentro i buchi neri il tempo come lo intendiamo noi non esiste — chi ci guardasse da quel freddo infinito fuori dal tempo ci vedrebbe come un dipinto già concretizzato, ed il nostro divenire di ogni giorno, il nostro libero arbitrio ai suoi occhi apparirebbe come un atto già concluso. Cose che forse possiamo intuire, più probabilmente sogniamo senza capirle, come un libro di Murakami.
Volendola fare semplice, semplicissima, è chiaro che l’energia dell’universo, il suo divenire, il suo vivere nel nostro stesso modo di concepire lo scorrere delle cose è in un certo senso essa stessa assimilabile al nostro concetto di Dio, l’immenso equilibrio delle energie di un universo immensamente grande ma a modo suo finito. Ci ho messo un po’ a capire questo concetto: perché non è che in fondo all’universo c’è un muretto o una rotatoria, come a Usuhaia, ultimo avamposto in fondo al continente sudamericano, prima che il mare spicchi il balzo verso l’Antartide. Non c’è un fondo dell’universo, finisce il nostro poterlo capire, prima. Nello stesso schema, la sottrazione di energie, il freddo che divora la luce è quello che le nostre religioni chiamano il Diavolo.
La sto facendo più che semplicissima, anche perché già così finisco sul campo minato delle metafore, mentre io vorrei restare sul pratico, sul tangibile, sul pane e salame.
Da qualche parte il vento porta il rumore della tangenziale; una volta ho fatto questo sogno, vivissimo: ero me stesso, steso sul letto, e tenevo la mano dietro la sommità della mia testa, ed era come se stessi reggendo in mano un’anfora pelosa dentro la quale c’ero io. E mi sentivo chiarissimamente come io, lì. Ed ero consapevole di essere un uomo, quella cosa lì stesa sul letto, con simmetria bilaterale e senza artigli e zanne, che respirava. Ero quella cosa piccola e confinata, racchiusa in quell’anfora, mentre sentivo i miei pensieri propagarsi come piccole reti dorate che attraversavano il mio cervello, in una sensazione di gradevolissimo solletico.
Il vento è fresco, ed il temporale ha smesso di promettere ciò che non ha mantenuto. Beatrice prima, vedendomi pensieroso, mi ha chiesto se fossi arrabbiato. Non lo ero: stavo semplicemente godendomi un momento perfetto, nella sua semplicità, nella sua umanità, nel battito sommesso del cuore, dubwise, chiedendomi se questo sarebbe diventato uno di quei punti dove tiro indietro il filmato per godermelo ancora una volta, e poi ancora una volta, e poi ancora una volta, finché vorrò.