Riprendiamoci il futuro
Ho un appuntamento con due persone in un cascinale rustico sperduto tra le dolci colline della pedemontana udinese, per una cena che, negli intenti, dovrebbe essere di lavoro: è l’antivigilia di Natale, e fatti salvi noi tre, il locale è prevedibilmente vuoto. Ci hanno preparato un tavolo vicino al camino acceso e neanche il tempo di toglierci i cappotti e sederci siamo già fitti a parlare, badando a malapena al menu. Non è una cena di small talk: l’attesa conversazione lavorativa stenta a decollare, inghiottita da spirali spontanee di conversazioni di filosofia, semiotica, scienza. Siamo tre professionisti che, tra una coscia di coniglio ed un pestât faranno — e credetemi, respiro ossigeno buono a dirlo — discorsi sul futuro, e con essi progetti.
La cameriera ci interrompe: “cosa prendete?”. Usciamo per qualche istante dalla nostra bolla di futuro per un più prosaico pasto presente. Ma, una volta ordinato, ripartiamo verso le nostre traiettorie.
Ho appena conosciuto A. e già dalle prime battute mi dà spunti su cui riflettere: “Una differenza macroscopica tra l’essere umano e gli animali non è nel linguaggio” asserisce “Anche gli animali hanno un linguaggio, spesso evoluto, con il quale sanno comunicare in maniera efficiente. Ma, a quanto pare, la differenza sostanziale tra umani ed animali è che la comunicazione animale sembra parlare esclusivamente del presente: per quanto se ne può capire, e da quanto riscontrato finora — il linguaggio degli animali si occuperebbe solo dell’imminente in quanto utile, e non è una storia.
Uno dei nostri vantaggi evolutivi come specie umana sarebbe stato quello di avere elaborato la capacità di creare una narrazione storica, e di conseguenza di poter partire da questa per pensare e progettare il futuro”.
Ironico — la preoccupazione e l’ansia come vettori evolutivi. I grandi mali di questo secolo benzina dell’evoluzione, ridacchio tra me e me. Sorrido e sorseggio un rosso. “Del resto, pare che la capacità di fissare ricordi nella mente dei bambini sia direttamente correlata allo sviluppo del linguaggio: ricordiamo con più efficacia da quando siamo in grado di esprimere e comunicare nuovamente le nostre sensazioni; un mancato sviluppo del linguaggio può facilmente causare pesanti deficit cognitivi”.
Il cibo è proprio buono. Normalmente non mi metterei a filosofeggiare così impunemente, ma i miei interlocutori sembrano essere terreno fertile a tal fine. Mi lascio andare a riflessioni che in altri contesti sembrerebbero fuori registro. La parte della “descrizione del sé” mi accende una lampadina”
“Ci ho messo un po’ a capire la stravagante intervista di Jim Carrey di qualche tempo fa” racconto loro. “Qualcosa che, passato il momento di TITOLOGRANDESENSAZIONALISTA, ha una sua logica.
“Non esiste un “me”. Non c’è nessun individuo. Ci sono solo energie. Jim Carrey è stata un’idea che i miei genitori mi hanno dato. Irlandese-scozzese-francese è stata un’idea che mi è stata data. Canadese è stata un’idea che mi è stata data. Avevo una squadra di hockey, una religione e tutte queste cose che si uniscono in questo tipo di mostro di Frankenstein, questa rappresentazione. È come un avatar. Queste sono tutte le cose che sono. Non sei un attore o un avvocato. Nessuno è un avvocato. Ci sono avvocati, la legge è praticata, ma nessuno è un avvocato. Non c’è nessuno, infatti, lì.”
“Si fa presto a dire che Jim Carrey, porétto, è preso male e fuori di testa. Bene non stava in quel momento, certo, ma pazzo è un’altra cosa. Tra le righe” racconto “si intravede una tessitura, che, pure nella sua stralunata esposizione, ha un suo fondamento di logica — forse un misto hollywoodiano di buddismo zen e teoria dei quanti, ma tutto sommato coerente.”
A. riprende il filo del mio discorso; esiste un dibattito infinito, in psicologia, tra nurture e nature: quanto il nostro comportamento sia realmente influenzato della nostra dotazione genetica e biologica e quanto invece da quanto ci è stato insegnato. La storia la guardate ogni Natale: è la trama che origina “Una poltrona per due”.
Fulvio Romanin non è un imprenditore, Fulvio Romanin FA l’imprenditore perché imprenditore non è un braccio, perché musicista non è una parte del mio corpo, che io parli italiano non è una parte del mio DNA, che io mi sappia friulano non è un dito.
“Che vuol dire Montecchi? Non è una mano, né un piede, né un braccio, né un viso, nulla di ciò che forma un corpo. Prendi un altro nome.”
Sono parti di una narrazione di chi sia Fulvio che ha scritto in parte la mia famiglia, il mio contesto, il mio mondo, e in parte io stesso a seconda delle mie decisioni, volontarie ed involontarie.
Gennaio 2007, Canoa Quebrada, coste del Cearà, Brasile: “Qui puoi essere quello che vuoi”, mi fa Filippo “nessuno ti conosce. Se vuoi andare in chiesa ogni giorno, o farti di coca e fare il puttaniere, puoi: nessuno sa chi sei, o ti giudica perché dovresti essere — sei completamente libero di essere te e ti puoi vedere per quello che sei davvero. In un mese lontano dal solito Fulvio mi vedo per come voglio raccontare che io sia e non come io debba perché qualcuno pensa che io dovrei.
“Aspetta un secondo. Se posso mettere da parte Jim Carrey per quattro mesi, chi è Jim Carrey? Chi diavolo è quello?”
Ho cambiato vita più volte, rifletto: ho cambiato famiglia, ho cambiato lavoro, ho cambiato città, e il Fulvio Romanin del 2006 ed il Fulvio Romanin del 2020 condividono, nei due differenti stati del sé, il ricordo comune del pre-2006, ed il presentimento del futuro. Il futuro che il Fulvio Romanin del 2006 si racconta è in parte il racconto del futuro di quello del 2020 (moglie, figli, famiglia) ed in parte radicalmente diverso (futuro come musicista nel 2006, come imprenditore nel 2020). Diverse diramazioni che condividono principi comuni — di morale, etica, gusto — e che si distinguono per linguaggio (dio mi scampi dai miei vecchi status Facebook da rappuso quarantenne, ndFu) e per direzione. C’è stato un periodo in cui Fulvio Romanin era un beatmaker hip hop e non un imprenditore: il suo linguaggio e la maniera in cui pensava e pensa a sé stesso e come lo fa ora sono molto diverse.
Questo succede a tutti noi.
Il linguaggio di questa narrazione, di queste energie per citare il termine — per me idoneo — utilizzato da Jim Carrey è spesso molto simile per tutti noi. La comunicazione di massa, la televisione, internet, lo small talk al bar, tutto questo ci influenza: legioni di anziane signore che sui social pubblicavano rose e gattini non diventano belve cattiviste da sole, ma perché il loro contesto le influenza e le manipola a tal fine. Lo diventi perché gli altri lo diventano, sdoganano degli slogan che si attaccano alla nostra parte inconscia, lo diventi perché le energie delle altre persone ti influenzano a tal fine, diventano tue, perché la conversazione ed il linguaggio generale sono diventati quelli nel frattempo. Assumere il linguaggio del nemico significa farlo vincere, entrare nel suo mondo e nei suoi schemi mentali. Chiunque abbia mai dovuto accudire un malato di mente o un depresso grave sa che farsi catturare dal suo schema mentale e dal suo linguaggio significa farlo vincere, validare il suo racconto — distorto, ma coerente a modo suo — della realtà, giustificarlo. “Nella guerra con i matti vincono sempre i matti” dice il proverbio. L’empatia tra pari porta spesso ad effetti specchio: avete mai provato, di fronte alla domanda fática “come stai?”, arbitrariamente, a rispondere “benissimo” o “malissimo”? Molto spesso il vostro interlocutore asseconderà il vostro umore enfatizzando le proprie problematiche o i propri buoni esiti a seconda del vostro incipit. Avete iniziato voi il discorso, lui danza con la vostra narrazione, per empatia naturale. Rispondere in maniera contrastante farebbe apparire subito maleducati.
La narrazione della storia è di per sé la storia. In inglese esistono due termini distinti per separare ciò che in italiano è unito: history, memoria storica, è distinto da story, narrazione. La comunicazione è di per sé scrittura del presente, manipolazione delle energie Carreyiane e con questo della realtà percepita. Perché di nuovo, non esiste una realtà in sé, ma solo una realtà compresa. Il pensiero magico, termine dispregiativo che indica il se ci credo allora succede, se mi curo il cancro con il bicarbonato allora guarisco estende il volere al succedere al di fuori della nostra conversazione, ma fallisce: la nostra narrazione influenza la storia di noi umani, non la realtà che ci circonda.
“La gente crede in ciò che desidera” diceva Giulio Cesare. I culti sono memoria, più desiderio futuro. Non esistono culti senza monumenti, idoli, reliquie di manipolazioni della realtà, storie di come la narrazione, la voluntas di qualcuno abbia influito sulla realtà. Gli animali non hanno monumenti, per quello che ne possiamo sapere, né culto dei morti.
W., iniziando il dolce, porta il discorso sulla parte linguistica, sua principale competenza: la forza di una cultura è proporzionale alla forza della sua lingua, alla sua ricchezza, alla sua estensibilità, alla diffusione della sua grammatica e di conseguenza dei suoi schemi di pensiero. La sua sopravvivenza e prosperità sono strettamente legate al suo aprirsi invece che al suo chiudersi. È il paradigma dell’appiattimento dell’uso quotidiano dei tempi verbali nella lingua scritta: la scomparsa del passato remoto — i monumenti — del congiuntivo — la possibilità — del futuro — la proiezione, la certezza dell’avvenire. “Io sarò, io farò, questa è la narrazione che io decido”. Fateci caso: se provate a dire “domani andrò al cinema” vi sentirete inconsapevolmente una via di mezzo tra uno studente delle elementari che si appropria del tempo verbale (per poi dimenticarlo) e un sempliciotto che punti il naso verso un futuro pronto a farsi beffe di lui. È terribile, ma è vero. È ormai forma mentis condivisa. Niente invece è rassicurante come un tempo presente, “domani vado al cinema”, dove l’atto di volontà viene già dato per eseguito, pur non essendo ancora reale. Una illusione di concretezza totalmente fuorviante: pensi di avere qualcosa, non lo hai davvero. Sbagliato grammaticalmente, sbagliata la story.
In quanto alle energie, non prendiamolo per un discorso elitarista: non è sufficiente sapere l’uso del congiuntivo corretto per potersi sentire parte di una enclave culturale, non è il cappotto di Gogol; è sufficiente tuttavia sapere che esista, che esista una possibilità altra, un tempo non-presente. Ma se guardiamo la comunicazione social, la sensazione di essere compagni di cella piuttosto che amici è forte: non esiste un dialogo, una ipotesi, una discussione del futuro — esiste una continua, incessante critica di pancia del presente. Sui social il futuro non c’è. I social solo in piccola parte contribuiscono alla progettazione condivisa del futuro, alla sua astrazione. Solo in qualche progettualità politica, ma spesso, anche qui, di azione diretta, come le api quando si comunicano il territorio. Sono più spesso una eterna digestione, ed espulsione non metabolizzata, del presente.
“Ma i social sono il posto dove vado a postare le gif pazze” potrebbe commentare qualche piccolo lettore “non dove scrivo cose serie”. E dove le scrivi, le cose serie? rispondo immancabile io, trovandomi di fronte ad una scena muta. Lo fai?
Già questo basterebbe ad essere sconsolati: l’agorà virtuale del pianeta terra, il cuore pulsante della tecnologia del ventunesimo secolo, qualcosa che i miei antenati nemmeno avrebbero potuto sognare, per l’evoluzione della specie e la salvezza della nostra posterità non solo non serve a niente, ma appiattisce il futuro e le aspettative. Se il futuro non è che un concetto vago che non utilizziamo, un tempo verbale e fisico che ci sembra ingenuo, irrealistico, allora diventa pericoloso, nebuloso — una minaccia che noi non possiamo piegare alla nostra storia-desiderio e che è facile usare come spauracchio sociale. In una società come la nostra, dove le persone sole — di fronte alla frantumazione delle macro-famiglie coabitanti ed autotutelanti del vecchio proletariato in unità di tre, due, una persona sola sempre più distanti da loro — stanno diventando maggioranza, il futuro è un posto gelido ed ostile, non più la fonte di speranza, di necessità e di entusiasmo che in altre epoche spingeva i nostri avi a prendere le vie del mare. Ed è più facile pensare di asserragliarci in casa che di uscire a conquistare il mondo, per così dire.
La solitudine diventa uno dei principali problemi sociali, e sarà presto un problema economico ed umano smisurato, vista l’età media del nostro paese.
Credo sia nostro dovere generazionale rimboccarci le maniche e riprenderci il futuro, inteso sia in senso verbale che fattuale. Credo sia il nostro momento di smettere di parlare del presente come se fosse un tessuto ineluttabile e fatalisticamente chiuso da chissà quale forza occulta e del futuro come se fosse una condanna ed una fonte di ansia senza speranza, invece di vederlo per la possibilità che davvero dovrebbe essere. Facciamo a capirci: il mio non è un discorsetto motivazionale da scrittoruccio daichecelafaista. È un discorso di sopravvivenza, a partire dalla mia famiglia fino a tutta la specie, dal mio conto in banca fino al climate change. Se come imprenditore il mio sogno fosse solamente quello di prendere 100 euro in più al mese, non starei ragionando da imprenditore. Un imprenditore, un politico, un architetto, quelli seri, progettano il futuro, non fanno amministrazione. Se come marito il mio sogno fosse stare tutto il giorno ad abbrutirmi di Netflix, non starei comportandomi da marito: è nel sogno e nella sua successiva concretizzazione che io costruisco la storia (history, in questo caso) della mia famiglia e della mia azienda. È difficile, chiaramente: è il compito di una vita. C’è anche da dire a nostra parziale discolpa che nel passato la visione del futuro era spesso riservata alle classi più privilegiate, guerrieri o mercanti. C’è da dire, ad aumentare i nostri sensi di colpa, che la nostra vita, in genere, è meno precaria della loro: abbiamo acqua corrente, cibo facilmente procacciabile e cure mediche (quasi) gratuite se stiamo male. Quindi non troviamoci troppi alibi: ora sta a noi.
I miei interlocutori si alzano da tavola, pasciuti come me — abbiamo parlato di filosofia, ed abbiamo parlato di lavoro: in nessun momento, nel corso della cena, tuttavia, abbiamo parlato di niente che non fosse futuro, e futuribile, e di come le nostre modeste forze possano contribuire a tenere vive lingua e cultura — nostro ambito professionale.
Mi alzo e sono appagato: dopo tanto presente, questo futuro mi dà ossigeno —come la scimmia che riuscì, dopo tanti sforzi, a mettersi in posizione eretta ed a perdere il proprio sguardo in un orizzonte più grande.