E insomma, ho chiuso la partita iva.
Già già, gente. Proprio io che ho scritto “L’iva funesta”. Dopo quindici anni di anni di onorata attività, da oggi non faccio più parte del “popolo delle Partita IVA”. O quasi.
Circostanzio.
Riassunto delle puntate precedenti: il giovane Romanin nel 2000 decide che da grande farà non il pompiere come Grisù o il mercenario spaziale come Han Solo (anche perché all’interinale posti simili erano finiti, nda) ma farà il web designer, visto che il web è una roba nuova ed in crescita e lui è uno smanettone di buon livello. Per dodici anni, mentre sogna di scalare le classifiche, tira a campare facendo il freelance: solo dal 2012 in poi si accorge che gli anni passano e che — nonostante gli piaccia — fare siti uèbs tutto da solo gli diventa vieppiù pesante ed antieconomico. Ok, ho insegnato all’università, al Festival of Festivals e allo IED, ok, ho fatto clienti-moloch come il Sunsplash e Italia Wave ma caspita, sono ancora qui a tirare la carretta come un pischello.
Quindici anni in cui, partito da un’ignoranza crassa e fetente di qualunque tipo di logica commerciale, raggiunge qualche buon risultato e tira violente testate sul muro cercando di capire a naso dove andare a parare.
Già che c’è, scrive il garrulo manualetto di cui sopra, che esce prima su Rolling Stone Italia e poi su Wired.Di nuovo, nel 2012, le cose cambiano: prende “a bottega” un diciottenne appena uscito dalle superiori, e questo impara velocemente, molto velocemente il mestiere; tant’è che quando il piccolo Romanin decide di — gasp — aprire società per cominciare a crescere davvero, lo prende come socio. Non “garzone di bottega partita iva cinquecento euro a trimestre”: proprio socio. E quando l’anno va bene, e i clienti cominciano a diventare consistenti e con avvocati più aggressivi di quelli che lui possa permettersi, decide di fare il grande passo e cambiare la SAS in una SRL. Che costa cara, ma tant’è. La società si ingrandisce con un secondo socio: Valentino, anche lui ventun anni, compagno di classe di Giulio.
Ora i miei piccoli lettori mi diranno: uè, grazie al cacchio, non-più-giovane Romanin, ti sei aperto una SRL, ti auto-assumi e vieni a farci la paternale.
Tsk. Me ne guardo bene: vorrei invece cogliere l’occasione per rilanciare un ragionamento:
LA PARTITA IVA ALL’ITALIANA E’ UNA ANOMALIA CULTURALE. ED UN ERRORE.
In breve:
- Una partita IVA NON deve essere qualcosa che sei costretto a fare per lavorare per terzi. La partita IVA la apri se hai un sogno tuo e serve per iniziarlo: non è né dovrà mai essere considerata un punto di arrivo. In maniera assolutamente sciagurata, a volte loro malgrado, in questi anni le aziende hanno impiegato persone esterne costringendole ad aprire partita IVA. E quando un’azienda ti chiede di aprire partita IVA per pubblicare i tuoi disegni o i tuoi siti, implicitamente ti catapulta tuo malgrado in un universo di burocrazia complessa quanto costosa, che tu spesso non avevi la minima intenzione di conoscere, figuriamoci essere obbligato a conoscere: io voglio disegnare manga perché sono bravissima a farlo, perché devo sapere che cos’è un codice ATECO? Perché devo sapere che cos’è la gestione separata dell’INPS? Perché se faccio fatture ad un solo cliente vado in galera? Io voglio solo lavorare ed essere pagato il giusto, senza troppe complicazioni.
- Una partita IVA — in particolare quella a regime dei minimi — è un controsenso ancora più forte: io faccio una partita IVA, mi faccio un mazzo tanto di burocrazia e carte, per guadagnare POCO. No, ferma tutto, c’è un errore logico importante.
Se io devo aprire una mia attività lo faccio perché voglio fare soldi, TANTI SOLDI. Voglio fare le telefonate anonime a Mark Zuckerberg di notte e dirgli “Ha ha sei povero” e riattaccare. Non certo perché voglio tirare a campare a seicento euro al mese. Nella sua versione più sciagurata, permette di guadagnare una cifra appena al di sopra della soglia di povertà. Voglio dire: ok fare il peones digitale, ma non esageriamo. Se il sistema non mi permette di crescere indefinitamente, allora c’è qualcosa da verificare. E si, certo, il regime dei minimi lo apri all’inizio di una attività quando hai pochi clienti, ma deve essere fatto per uscirne quanto prima possibile. - Una partita IVA ti tutela poco, tendente al niente. E se ad esempio recentemente è stato introdotto un (benvenuto) assegno di maternità per le partite IVA e qualcosa sulle malattie, è anche vero che se fai un guaio il conto in banca su cui si rifanno è il tuo proprio. E se non ti apri una pensione integrativa so’ddrammi. Il che può non essere un problema finché fai il sito del tabaccaio sotto casa, ma lo è eccome se il cliente è più rilevante e ha avvocati permalosi.
Ora, mentre prendo un elmetto con spuntone della prima guerra mondiale per ripararmi dalle critiche in arrivo, vorrei dire che questo, in una certa misura, ha una sua logica. Perché di nuovo, il regime dei minimi deve andare bene solo per un po’. E laddove io ho sempre pagato la “pena intera” (il RDM è stato aperto nel 2008, io ho sempre pagato come tutti i lavoratori indipendenti un boato di tasse), è anche vero che, al di là delle (pesanti) implicazioni fiscali, è ora di fare uscire la nostra generazione (e auspicabilmente le future) dalla sensazione di un precariato a vita, di un “fine pena mai”.
Con calma, con i tempi necessari, se si vuole lavorare da indipendenti o aprire una propria attività professionale bisogna imparare a guardare oltre, a fare progetti realistici di crescita.
Nota bene: io NON, ripeto chiaramente NON ho una conoscenza così approfondita dei meccanismi del jobs act da poter dare delle mie opinioni (non richieste, btw) su questa o quella gabola o procedura nè voglio entrare nel singolo merito: mi chiamo fuori.
Però, però, però, ve lo dico sinceramente, l’apertura di una posizione di contratto a tempo indeterminato io non riesco a vederla come una cosa negativa, per quanto le tutele possano non essere paragonabili alle precedenti. Di nuovo, non sta a me parlarne. In fondo, in buona parte del nostro pianeta, quando il datore di lavoro non ti vuole più, più o meno ingiustamente, più o meno velocemente ti licenzia (“ti vedo sbarazzino: infatti non vedo l’ora di sbarazzarmi di te” — cit.).
La cosa che — forse ingenuamente — mi piace, è il cercare di ridare, almeno in superficie, dignità al lavoro. Il fatto di non sentirsi con il fiato sul collo, con la data di scadenza come il latte sinistramente tatuata sul polso. Il fatto di poter dire “ok, accendo un mutuo per comprarmi casa, per mettere su famiglia” o anche solo perché mi va per comprarmi un ampli Marshall grande come un monolocale, insomma. È penoso per un ricercatore plurilaureato sapere che il proprio contratto ha termine, che — di fatto — sei un cottimista, e pure sottopagato.
Perché insomma, alla fine nessun lavoro nasce per essere per sempre, e se papà ha lavorato per quarantacinque anni nello stesso posto di lavoro, è anche vero che è successo perché aveva trovato un posto di lavoro solido. Ma essere licenziati — per schifo che faccia — fa parte della ordinaria vita professionale.
E se le tutele dei lavoratori sono essenziali nella vita di un paese sano (quale dovremmo aspirare ad essere) è anche vero che a mio parere quasi qualunque cosa è meglio di un COCOPRO a due anni e poi aiuto, non so, ho quarant’anni e la disperazione.
Perché non c’è nulla di peggio di questo, per me: il fatto che a un certo punto, a fronte della mancanza di lavoro, cominci a pensare di essere sbagliato TU, di non meritare niente di meglio. No, vorrei rassicurarti, no. Non è colpa tua. Sono tempi difficili, lo sono per tutti. Davvero.
Cosa succederà ora per il piccolo Romanin?
Ah, vorrei saperlo: per me essere “stipendiato da me stesso” sarà uno choc culturale — la partita IVA ti dà l’impressione che, se ci riesci, puoi fare tantissimi soldi (salvo poi trovarti un PESANTE conto da pagare da parte del fisco) o tappare quantomeno qualche buon buco con un bonifico arrivato d’amblè, mentre il mio stipendio avrà un inizio ed una fine. Diciamo che dovrò diventare adulto nella gestione dei miei denari — che male non fa, eh.
Ho anche un po’ di timore, perché a questo punto o l’azienda funziona o “la papera non galleggia”. Di nuovo, è quello che io chiamo un problema necessario. Se non me lo pongo, continuerò a crogiolarmi nei “mille euro al mese”.
So per certo che non smetterò di parlare di lavoro indipendente: perché anche se ora sono “passato dall’altra parte della barricata” (ma per cortesia, nda), è vero anche che in questo momento sto navigando a vista come quindici anni fa; la sensazione “bicicletta con le rotelline” è molto forte, come quella “non ho visto questo particolare tasto, ora pago 5000 euro, aiuto”. Ma dopotutto “Iva funesta” trattava solo in parte di burocrazia, molto più di crescita professionale. E lì penso che avrò ancora cose da dire: cose che sto scoprendo ogni giorno, e che sarò felice di condividere insieme a voi qui e sull’imminente blog di Ensoul, pronto ad ascoltarvi in caso di sciagurate sviste o peggio in ingenuità da pigrizia.
Gente, fletto i muscoli e sono nel vuoto.
Fate il tifo per me come io lo faccio per voi.