Dinastia di montanari
Questa piccola storia potrebbe iniziare da qui: nel 1985 papà e mamma ereditano dai nonni la casa di Sappada, e, con non poco sforzo, la restaurano. È la bellissima borgata Muhlbach, a Sappada vecchia, uno dei borghi più caratteristici: accanto a noi altri quasi-sappadini come noi, riimmigrati, stanno facendo diventare quella che era una stalla una villa di quattro piani, con piscina e sauna interna. Per neanche un secondo i Gualtierotti Marri, questo il loro nome, ci sembrano che meno alla mano: ad antenati di altissimo lignaggio — citati nella Divina Commedia, per dire, così come è citata la loro casa nelle mura di Siena — corrisponde una semplicità ed una naturalezza nei rapporti umani per la quale è inevitabile in brevissimo lo sbocciare di un’amicizia così forte che nemmeno la scomparsa di papà e mamma può attenuare. Durante le vacanze casa loro è in parte casa nostra — trascorriamo insieme e da loro non meno di tre lustri di vacanze — e così la coorte di architetti, bancari, commercialisti e dignitari vari che si avvicendano nelle loro sette stanze. Tra costoro il dottor T., è primario presso una clinica lombarda, ed ha il vezzo dell’araldica. Tra una grappa e l’altra, dopo cena, il dottor T. fa presente a mio padre che probabilmente all’interno della canonica di Forni Avoltri è celata, nei polverosi tomi ecclesiastici, una larga parte della nostra storia famigliare. Papà sorride, ma lo rimbecca “non ti faranno entrare, si sa che la curia non fa mettere becco al passato — specie se prossimo — delle varie famiglie. Troppi NN, troppe corna che non sono sfuggite al pubblico registro come alle vecchiette di paese”.
La strana delegazione il giorno dopo si reca dal curato, che come previsto si trincera dietro una cortina fumogena di non si può, non è permesso, il vescovo, le au-to-riz-za-zioni, la sacra rota. Umberto Gualtierotti, uomo di mondo, gioca l’asso: “ma perché vede, il qui presente DOTTOR T.” calcando molto l’accento sulla parola DOTTORE. La campana della chiesa comincia a suonare come una Slot Machine — il prete comincia una litania a base di: “AHMACIAVREIUNODOLORINOQUICHE”. Il dottor T. coglie la palla al balzo e “MA MI FACCIA VEDERE, SUVVIA”. Papà e Umberto si fanno l’occhiolino a vicenda. Missione compiuta: i goti entrano a Roma e spalancano gli archivi segreti del Vaticano.
Dieci minuti dopo il dottor T., rassicurato il prete che no, non ha niente di strano, sta scartabellando tra i tomi aviti e le calligrafie incerte. Impolverato, con qualche lacuna dopo tre ore ne esce con l’elenco dei miei antenati. Una genealogia semplice, non priva di lacune, ma molto interessante.
I primi ad essere menzionati sono Vito e Leonarda, con il battesimo di loro figlio Giacomo Romanin, 10 febbraio 1636.
Nel 1663 Giacomo si sposa con Caterina Di Sopra. Chiamano loro figlio Vito, come il nonno. Nel 3 luglio 1690 Vito si sposerà con Caterina Romanin e loro figlio Nicolò viene al mondo nemmeno due anni dopo, il 9 gennaio 1692.
Nicolò sposa una Danielis, Maria, il 22 giugno 1716, e loro figlio Giovanni Battista, sposa sua cugina di quarto grado (annotazione del dottor T.) Caterina Samassa, l’8 giugno 1762.
Loro figlio Giuseppe sposa una Achil, Orsola, nell’11 settembre 1809, al volgere del nuovo secolo. Loro figlia Domenica rimane incinta senza essere sposata. L’8 ottobre 1850 un roseo bebé emette i primi vagiti a Forni Avoltri. Viene chiamato Fridolino: è mio bisnonno, ed il primo del ramo di Brigjidin di cui io faccio parte.
Il dottor T. annota certosino le note del bigino ecclesiastico: “8 ottobre 1850, Romanin Fridolino, illegittimo, di Domenica di Giuseppe Romanin detto Sefut, nata e domiciliata al Forno (Forni Avoltri, ndFu). Cattolica e villica. Padre putativo Giacomo di Giacomo Pugnet (?) di Moggio, medico Lazzaro Romanino detto Sefut di Forno, Teresa di Giuseppe Romanin detto Dova possidente di Forno. Levatrice Maddalena, moglie del qd (quondam) Nicolò Romanino di Forno. Il nome della madre di questo bambino viene asserito dalla levatrice suddetta.
Non deve essere stata facile la vita di Fridolino, figlio illegittimo le cui foto ci mostrano come uomo volitivo e grintoso, fiero dei suoi baffi curatissimi. Il 3 novembre 1877 Fridolino si sposa con Giuseppina Pallober. Quondam sta per “un certo”: una maniera piuttosto raffinata per dire figlio illegittimo.
Flashforward: 1989, mi sto segnando a Biologia all’università della Sapienza, a Roma. Il mio primo compagno di corso — corso O-R visto il sovraffollamento — si chiama Francesco Quondam. Incuriosito dal suo buffo cognome, domando: sarà lui a spiegarmi l’origine di questo termine.
Come citato:
Fridolinus filii quondam Dominica Romanin et Josepha fil. Josephi Pallober de Furno De Avultro et ambo in primis novis — sposi nella chiesetta parrocchiale di San Giovanni Battista in Frassenetto. Testimoni Jacopo figlio di Giovanni Battista Casabellata et Fidele figlia di Giuseppe Pascolini, entrambi di Frassenetto.
Fridolino e Giuseppina hanno tre figli: Umberto (1878–1924), Enrico e Francesco. Nel 1901 Umberto si sposa con Domenica del Fabbro e hanno ben cinque figli: Giuseppina (morta nel 1917), Vittorio (nato nel 1905), Elmina (1906), Luigi (1910) e il giovanissimo Giuseppe (1921).
Da qui è storia odierna: Giuseppe ha quattro figli — Umberto, Carla, Franco e Marina. Elmina e Luigi nessuno. Vittorio ne ha due, Romano (1937) e Roberto (1940). Romano ha due figli, Mauro (1967) e Stefania (1970), che avrà a sua volta tre figli. Roberto ha un figlio solo, Fulvio (1971) che è colui che vi racconta questa storia.
Già: questa storia potrebbe concludersi per ora così; quando, verso la fine del 2013 il figlio di Roberto, Fulvio, va a incontrare un potenziale cliente, il direttore di un museo storico che potrebbe avere bisogno dei sui servigi professionali.
Il direttore, amabile signore sulla settantina, appena tornato da una lunga pausa dopo un infarto —le scarpe senza lacci, inusuali per un signore così elegante, lo sottolineano con discrezione — lo accoglie con tutti gli onori, e lo conduce di stanza in stanza in un meraviglioso, variopinto giro turistico, cortesia insolita verso quello che potrebbe essere un fornitore.
“Direttore mi scusi” gli faccio “io sono affascinato da quanto mi racconta, ma io sarei venuto qui per il vostro sito”.
“Ah! Ma lei non è il giornalista di Repubblica?”
“No” sorrido comprensivo “ma le sue storie sono davvero belle”.
Il direttore mi porta giù negli uffici e mi introduce con “Signore, vi presento colui che si prenderà cura del nostro sito”. Le segretarie si guardano, strabuzzano gli occhi.
“Ma direttore, non ricorda che il mese scorso lei ha già accolto il nostro nuovo fornitore?”
“Ah!” esclama incredulo questi.
Le racconto un’ultima storia, però, per farmi perdonare la mia sbadataggine, mi sussurra vedendo il mio disappunto. Lei vede quest’uomo dinanzi a noi, in questa posa statuaria? È Jacopo Linussio, nato a Paularo, in Carnia come lei, nel 1691. Imprenditore del tessile — il primo a concepire il lavoro a domicilio femminile — si narra che negli anni di massima floridezza la sua fabrica avesse fino a trentamila dipendenti, e visto e considerato che il Friuli aveva si e no centoventimila abitanti all’epoca, può trarne le sue conclusioni. Qualcuno dice che sia tra gli inventori di quel tessuto poi reso celebre a Genova come Jeans. Ecco, vede qui il quadro? Sotto, dove in genere c’è scritto il casato dei nobili qui c’è scritto VIDETUR EX SE NATUS: lo vedete per come si è fatto da solo. Quando sua figlia si presentò con un pretendente nobile — in genere molto apprezzato all’epoca per dare lignaggio alle casate — lo cacciò a base di non abbiamo bisogno di parassiti mangiapane a ufo in questa casa.
Vito Romanin non era Jacopo Linussio. Fridolino non era quel De Antoni che a Ovaro nel 1920 aveva l’autista in Limousine e possedeva la Cartiera. Vittorio però era figlio di un pastore ed è diventato segretario di un ministro. Roberto era un perito elettronico ed è diventato nove due dell’Enea, radioprotezionista nucleare. Fulvio beneficia, nella sua vita, di tutto il privilegio e la solidità e la carnica testardaggine che i suoi antenati — da Vito in su — gli hanno trasmesso, e cerca di farne buon uso.
E chi cercasse di liquidare con “montanari” un sinonimo di gente ignorante, chiusa, gretta, beh, ha dinanzi a sé l’ennesima prova di quanto questo concetto sia sciocco, e superficiale, e pressapochista. La mia famiglia discende da cinque secoli dalle valli e dalle vette di Forni Avoltri, in Carnia, dando lustro e prestigio ad un luogo per secoli isolato ed aspro, e io non posso che essere orgoglioso, e grato, di tutti quanti loro, dal primo all’ultimo.