Di come fare un ottimo* lavoro e perdere soldi e cliente.

Fulvio Romanin
14 min readJul 8, 2019

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Dove si tratta di ambienti digitali ma con il medesimo approccio che vale anche per molti altri mestieri.

Quel pasticciaccio brutto di Miss Universo 2015, sive “pensavo di aver vinto, ed invece”.

L’11 luglio 2020 soffierò su una torta con venti candeline: vent’anni di professione nel web design e nello sviluppo web. Non è una cosa che possono dire in tantissimi, anche in un momento come questo dove “faccio web” lo fa anche tua zia. Questi che leggerete, sia chiaro, sono sbagli che ho fatto per primo io.

In venti anni, il mio mestiere — per fortuna — è cambiato e si è evoluto più e più volte. Capiamoci: venti anni fa internet era un posto lento, astruso e per pochi, non lo strumento quotidianamente pervasivo di questi giorni. Quando venti anni fa mi commissionavano un sito in Flash (sospira, nostalgico) nel 99% dei casi si risolveva in uno schema tipo

“ciao Fulvio!”
“ciao cliente!”
“ecco il materiale!”
“ecco il sito!”
“ecco i SOLDA, ci si rivede tra due anni!”.

E tutti felicioni.

Aggiornamenti, social, landing pages, connessioni con i CRM: era tutto un mondo ancora lungi dall’esistere. Internet era solamente “la nuova brochure che costa di meno e mi hanno detto che funziona meglio”.

Nel 2019 il mondo è quello che abbiamo davanti agli occhi tutto il giorno, il mondo dell’always on, delle campagne marketing come nuova guerra di posizione tipo prima guerra mondiale, che spinge le aziende più sveglie ad evolvere verso la digitalizzazione del loro lavoro e delle loro procedure, ed a restare sempre visibili ed in piena attività: sempre più una forma di sopravvivenza che una scelta.

Nei paesi anglosassoni questo cambiamento è arrivato prima: suonerà poco patriottico dirlo, ma il cambiamento vero dalle nostre parti comincia ad arrivare solo ora; anche le aziende più sprovvedute capiscono che “il bàgget del uébs” non è una cosa che puoi tagliare a cuor leggero perché sono più urgenti i nuovi calendari da regalare a Natale.

Una volta lo scenario era lineare, molto lineare: i siti internet erano con una risoluzione 1024x768 pixels, poi 1440x920, e canuti dirigenti d’azienda potevano affermare risoluti “VOLLIO CHE SI VEDA TUTTO SUBITO SENZA SCROLLARE” senza venir pubblicamente tacciati di senilità.

I bei tempi andati, che ora ci sembrano belli perché — a posteriori — li abbiamo capiti.

All’epoca, per dire, la regola del 40–30–30, cioè 40% all’acconto, 30% alla prima visualizzazione e 30% al saldo era ancora abbastanza buona: questo perché una volta si “varava il sito” con il rituale brindisi con prosecchino accompagnato dalla news unica “ecco online il nostro nuovo sito” con una foto del canuto dirigente in posa da tapiro impagliato e poi arrivederci, ci si sente tra un anno.

Le aziende che necessitavano di qualcuno ad occuparsi sempre del loro digital erano poche, pochissime.

Un mondo che cambia più velocemente di un bonifico.

Se chiederete ad un designer cosa ne pensa dei nuovi smartphone pieghevoli, che poco successo hanno ottenuto finora, sentirete un guaito sommesso seguito da invocazioni a divinità plurime, spesso inventate sul momento in acrobatiche combinazioni zoologiche.

Che i contenuti siano diventati device agnostic, cioé che debbano essere mutevoli e flessibili a seconda dello strumento con cui vengono visualizzati, è un mantra sempre più vero e sempre più spesso infranto: per quanto tutti quanti noi viviamo con l’abbronzatura da smartphone, c’è da dire che la maggior parte dei siti web vengono ancora pensati in modalità desktop per prima, dove c’è più spazio e più possibilità espressiva. Spesso i siti mobile si riducono a delle patetiche fettuccine scotte di contenuti illeggibili, delle tristissime tenia solium di nessuna rilevanza informativa.
È un concetto difficile per noi che ci lavoriamo, figuratevi per chi non fa il nostro mestiere.

Ch-ch-ch-ch-changeeees.

Anni fa esistevano più o meno due figure: il grafico web, che quasi sempre veniva dal cartaceo e si lanciava in affermazioni come “questa immagine deve essere larga TRE CENTIMETRI” ed il tizio stralunato che scrive codice, guardato sempre un po’ con diffidenza.

Un giorno questa cosa del web comincia a rendere soldi, soldi veri: non stiamo parlando della bolla del dot com degli anni novanta; stiamo parlando del fatto che molte attività convertono al digitale il loro core business. Immaginatevi un magazine online: improvvisamente dal solo programmatore full stack (che tradotto in italiano vuol dire “colui che fa tutto, anche cose che vorrebbe non dover fare”) si creano ruoli diversificati e con competenze importanti. Appare — anche nel web — il project manager, il content manager, gli account, il content editor, i web developer, i quality assurance e quant’altro.

Il punto nodale è, di nuovo, l’always on.

Molti dei clienti con cui abbiamo a che fare, non ce ne vogliano, sono arrivati più impreparati di noi a questo cambiamento. È piovuta loro addosso la globalizzazione, sono arrivati i cavalieri dell’apocalisse sotto forma di Amazon, Netflix, Google ed improvvisamente si trovano a giocare in un campionato nuovo per il quale loro — come noi — non erano preparati.

Nel 2019 dove scrivo un sito brochure serve solo ai ristoranti che devono far vedere il menu — forse nemmeno a quelli, hanno Tripadvisor o la pagina Facebook: più il fatturato di un’azienda cresce, più la mancata digitalizzazione dei processi e della comunicazione è un danno ed una arretratezza grave. Almeno a chiacchiere: molte delle nostre aziende lavorano ancora in maniera più analogica, salvo poi lagnarsi della crisi.

Il concetto difficile, difficilissimo da far capire è che un lavoro non è mai finito. Può finire il tuo idraulico, può finire il carrozziere: il tuo web designer non finirà mai. E che fai, te lo accolli a vita?

Funziona più o meno così:

Stringi la mano al cliente, ti dà il contratto firmato, e c’è l’elenco delle cose che vuoi nel sito; dopo un po’ di F5 sul conto in banca il bonifico appare, e tu parti. La timeline è definita: hai spiegato al cliente che per fare il lavoro ci vorranno mesi, e lui sembra averlo compreso.

Mesi in cui guarderà l’evoluzione di quanto concordato, e cominceranno a questo punto i dubbi ed i “ma se”; farà vedere il lavoro a qualcun altro, e dove questo qualcun altro non riuscirà a capire subito quanto da voi proposto, tenterà di ricondurre il processo di esecuzione a qualcosa che già conosce (“il sito del nostro concorrente principale fa così, quindi anche noi dovremmo” e daje di follow the leader). Generalmente qualcosa di più brutto e meno innovativo: “il brutto che sai”, per così dire.

“A Fu, nun me fà vedè diagrammi che…” “significa meno soldi per la tua azienda” “…ce l’hai in formato A3?”

A questo punto subentra uno dei primi mostri: lo SCOPE CREEP.

Se io vado dal fruttivendolo e compro tre etti di ciliegie, è facile che mi possa venire gola, vedendo tutto questo ben di Dio di fronte a me, di comprarmi anche sei pesche e due buste di noci. Che però non sono quanto avevamo concordato, e, nel contesto di un progetto, possono non solo portare a far deragliare tempi e costi, ma addirittura snaturare il progetto impegnando un effort maggiore in una funzionalità inizialmente non prevista. Se ho il sito davanti al naso da mesi, mi verranno nuove idee in mente, è chiaro.

“Ma puoi chiedere più soldi” diranno i miei piccoli lettori: “non sempre”, risponde sereno Zio Fu, anche perché a volte far capire al cliente che quel pulsantino lì che a lui sembra un francobollo di 2x2cm richiede una settimana di lavoro ed il coordinamento con un CRM di terza parte non è facile.

Lo spiego per voi, che magari guardando dal mio punto di vista come me non lo vedete: qualche mese fa ho cambiato casa, e ho dovuto decidere il colore delle piastrelle. Il venditore mi porta una piastrella di 60 x 20 cm, e, guardando il mio pavimento di 70mq mi fa fiducioso: “va bene?”. Ed io “ma è una piastrella troppo piccola, non riesco ad immaginarm — AH ECCO COSA MI DICONO I MIEI CLIENTI OGNI TANTO”. Capito come?

Una delle ragioni principali per cui spunta lo scope creep è che il project manager non è abbastanza severo verso il cliente. Perché basterebbe subito dire di no, ma si sa che insomma, il lavoro è bello e sta andando bene, e magari ‘sta feature in più gliela vuoi pure regalare per fare bella figura.

ERRORE ROSSO: salvo miracoli, qualcosa in qualche punto andrà male. Fare lavori impeccabili è più un caso che un reale valore numerico. Succederà, è umano: e più saranno alte le aspettative del vostro cliente verso di voi, più questo errore rovinerà la fiducia che eravate riusciti a costruire. Consiglio strategico: non regalate mai le cose in corso d’opera, solo alla fine del lavoro. Se regalerete una funzionalità nel mezzo del lavoro, anche se sta andando benino, sarà implicitamente un’ammissione che o dovete farvi perdonare qualcosa, o quello che gli avete venduto prima come rigoroso conteneva in realtà delle sacche di “tempo” che gli avete nascosto.
Se lo regalate alla fine, lo percepirà come sconto, e sarà feliciotto.

Un’altra delle ragioni per cui lo scope creep è letale, è perché tende ad insinuarsi all’interno della deadline prevista: se ho il meeting di venditori a Colonia e posso avere qualcosa che mi farà fare più bella figura (NESSUNO, per esperienza personale, a Colonia, vedrà mai quello che avete fatto: nelle fiere non c’é rete e la gente pensa a vendere, non a guardare i siti altrui) allora voglio uno E l’altro. E siccome i vostri cavalli vapore sono quello che sono, allora finirete per fare male due cose.

fonte: faceva troppo ridere.

Il secondo mostro è la sindrome dell’impaginatore.

Voi fate siti, voi fate menu di navigazione, mettete su e-commerce, sistemi di interfaccia con una lastra in ghisa monofusa, e cose difficili. I vostri siti hanno una performance spaventosa e gli Audits di Google vi mandano un cesto di doni a Natale in segno di reverenza.

“Però guarda, vedi che quest’immagine è a 2.3cm dal bordo e questa a 2.2.
Sì, io non so cosa vuol dire responsive, non fare il professorone con me.
Però secondo me ci vogliono più font.
Però secondo me l’animazione del mouse non si capisce, perché ho chiesto ai miei amici e sono rimasti CONFUSISSIMI dal fatto che il pallino dell’animazione del mouse andasse su di 0.1mm e quindi loro hanno scrollato come scimmie urlatrici per ore nella direzione sbagliata.
No, ma guarda, quando clicchi su questo bottone si finisce su una pagina totalmente diversa dove i video vengono presentati in ordine di Alfabeto Kirghizo.
Guarda che gli a capo non sono giusti (
vi sento urlare, ndFu).
L’animazione è troppo lenta, voglio una schermata introduttiva che duri almeno 14 secondi”.

Se dovessimo fare un diagramma di quanti soldi vanno gettati in questa fase, prendereste paura.
La prima ragione è che — volente o nolente — occupano un frontend developer — perché ci vuole lui — per il doppio del tempo messo a budget. Quindi anche uno che costa caro. Chi ha risorse, impiega per questa parte un junior frontend, che gli costa di meno. Ma non è che siano gratis o piovano giù dagli alberi.
La seconda è perché voi, se avevate seguito lo schema di pagamento 40–30–30, vi troverete a spendere in questo, che è l’ultimo 30, subito prima del lancio, una quantità di ore smisurata, e la liquidità aziendale ed il guadagno faranno PROT.

È brutto da dire ma è umano: per quanto la simmetria sia nell’indole dell’essere umano, nessuno vuole un sito con tutte le pagine uguali. Simili, ma non uguali: ed il fatto di spingere giù contenuti editorialmente non pensati per il punto dove vogliono far vedere quella foto lì che è bella porta al solito disastro del responsive. “Eh ma io non ho una persona nel mio team che mi tagli le immagini a misura, costa!” mi ammonirà l’imprenditore, che sta di nuovo perdendo fiducia nel progetto. E, come vedete, qui la piastrella posata, per tornare alla metafora di prima, sta male, ed io cliente mi lagno, mentre il fornitore mi dirà “eh ma io ho fatto quello che mi hai detto tu!”.

Ve lo notifico: ci sarebbe una soluzione, ma funziona solo se siete aziende molto strutturate e pelose ed i vostri interlocutori sono altrettanto grandi. Quella di dirgli “io ti faccio il telaio, ti formo ad inserire i contenuti e poi ti arrangi, spendi meno e se ti servo TRAAC assistenza”. Per me che lavoro con aziende anche grossine qui in Italia, nessuno o quasi, a meno che non crei contenuti di mestiere, accetterà tale proposta. “Se sapevo farmelo da solo non chiamavo te” commenterà laconico “io voglio il sito FINITO”.

Per così dire, il cliente ha il diritto di non sapere.

fonte della foto; approfondimento

Mostro numero tre: il Pozzo di San Patrizio.

Si distingue dalle prime due fasi perché avviene in una fase successiva alla release: il sito FINITO non esiste mai. È un concetto difficilissimo da trasferire: se il meccanico mi dice la stessa cosa dell’auto, lo meno con la brugola da venti.
DOPO il lancio del sito ci sono altre cose da fare, spesso non progettate, perché l’appetito vien mangiando. E anche qui malumori: “maccome, mi hai fatto un e-commerce che mi è costato carissimo, tipo mille euro, e ora mi dici che non si può collegare con il sistema di pagamento della banca nazionale di Scampia!? Eh no, ora me lo fai gratis”. E se tu vuoi tenerti il cliente, ti mordi le labbra e pensi a come ammortizzare il danno. E giù malumoroni e “rovinato il rapporto di fiducia creato”. What a surprise. E il saldo dell’ultima tranche arriva a 180 giorni.

Per anni ho pensato che i commerciali della concorrenza fossero avidi e chiedessero cifre spropositate. Poi ho capito.

Regola: non esistono lavori in pareggio — in un lavoro, se non guadagni, perdi. Fosse anche solo il tempo che ci hai messo.

Quarto mostro: il quality assurance.

Il sito è online come previsto: ma sai, ieri ho caricato una jpg da 8mb e il sito ora va lento. Poi io la volevo verticale, e qui mi hai fatto il buco solo per orizzontale — cosa voleva dire che l’abbiamo concordato? Ti ho chiesto di cambiare il menu, ma dal cellulare di mio padre non va. È un disastro: rimedia subito.

In Italia la figura del Quality Assurance non è ancora ben chiara. E’ un martire protocristiano che si mette a navigare tutto il sito e cerca i bug con infinita pazienza. Che lo fa prima, quando c’è budget, e che lo deve fare dopo, quando il suo costo orario va a sommarsi con quello del frontend che deve correggere gli errori.
Se lo chiedete a me, non farei il QA ne andasse della mia vita.
Però — punto di vista del cliente — io volevo A e vedo B. So di avere cambiato idea su quell’immagine, ma sarai tu che devi dirmi se va bene o no, vero?

Se potessi fare una statistica, direi che il mancato QA è dove noi abbiamo personalmente perso più fiducia da parte dei clienti.

È una questione di percezione: il sito vecchio non era responsive, con errori di ortografia, fatto nel 1991 in pannelli di truciolare nobilitato color noce e per caricare stava tra le quattro e le sei settimane. MA io ho dato a te dei soldi, e qui tu, che pure sei un professorone del web, e ti fai pagare caro, mi caschi su queste figurette da dilettante. Perché di questo si tratta: fare la figura degli ingenui. Hai fatto meraviglie e le getti via per errori veniali.

Un cliente ossessivo farà sempre QA per voi, inondandovi di mail quotidiane piene di to do list — spesso con richieste non concordate — che portano via ore.
In quale misura abbia ragione lui, ed in quale voi, questo è tutto da dimostrare: a volte l’umiltà ci vuole, eccome.
E se un cliente inizia a farvi QA, sappiate che le cose non stanno procedendo per il meglio.

Regola: mostrate le release al cliente quando siete ARCISICURI che sia tutto a posto. Che non vuol dire solo “la pagina si vede bene” ma anche “la pagina si vede bene se clicco prima lì, poi là, poi di nuovo lì”.
Ecco, questa è una parte del lavoro che non mi piace.

Il quinto mostro: l’assistenza post vendita

Adoro queste foto stock, dove la gente in riunione guarda un monitor ridendo. In anni che ho fatto riunioni, mi è successo solo se guardavamo video di Alvaro Vitali.

L’assistenza una volta non esisteva: quando un cliente aveva bisogno di un aggiornamento una volta ogni sei anni ti chiamava, ti chiedeva CUANTI EURE COSHTA spostare la foto del gattino da sinistra a destra in homepage e tu gli dicevi EURE OTTO e via che si andava.
Ma questo può andare bene per interlocutori con un’azienda piccola. Appena appare un ufficio acquisti all’orizzonte, ecco che arrivano i rendiconti orari [tema de “lo squalo” in sottofondo].
Perché certo: voi siete degli idraulici, e venite pagati ad ora.

Scherzi a parte, è un problema reale: non solo il contabilizzare quante ore ci siete stati a fare una cosa per loro, ma anche per voi.
Perché l’ufficio acquisti per giustificare un intervento deve aprire un ordine d’acquisto. Che costa tempo, e quindi denaro. È una consuetudine comune quindi quella di offrire dei pacchetti orari, croce e delizia di ogni azienda di web development: con un solo pacchetto orario, ed un solo ordine, viene risolto il problema di cui sopra per più interventi presenti e futuri.

Questo però apri altri scenari: l’adozione di un sistema di ticketing, perché anche il cliente vuole avere il controllo di quante ore gli fate pagare. Dimenticatevi il cliente che ECCO UN MILIONE DI EURE ROMANIN FAI TE: anche le agenzie grandi-grandi-grandi oramai si vedono passare i solda con il contagocce, spesso da agenti anche di nomi importanterquimi che hanno 1000 euro di budget ciascuno.
Qui si sprecano soldi veri: perché a volte il cliente si aspetta che con venti ore ci faccia sei mesi, e ti manda cinquanta mail al giorno. E perché, se la tua azienda non tiene bene conto delle richieste e del tempo impiegato, hello perdita. No QA, no ore contabilizzate.

Calcolate anche come vengono computate le ore: in un’azienda grossa viene aperto un ticket, che viene passato all’account, che lo gira al project manager, che lo gira al web developer, che poi lo passa al frontend, che poi lo passa al QA, che lo rimanda indietro e alla fine per spostare la foto di un gattino sono sei ore di lavoro per un team. E giustificare sei ore di lavoro per un intervento del genere spalanca i bastioni di Orione al cliente per non pagarvi.

Un consiglio che mi sento di darvi è: fate sempre un micro-preventivo, per iscritto, al cliente, specie quando il lavoro supera tot ore. E non dite mai “ci starò quattro ore” ma una forbice tipo “dalle tre fino un massimo di cinque ore”, nel caso il lavoro incontri complicazioni impreviste che potrebbero non essere colpa vostra e per questo non devono costare a voi.

Vi devo ancora un asterisco, quello del titolo.

Come avrete potuto capire, c’è una differenza tra qualità reale dell’esecuzione e percezione da parte del cliente (e dei vostri collaboratori). Anche a fronte di competenze sofisticate un errore è un errore.
La gestione del rapporto con il cliente è difficile forse più che non saper fare degli slideshow tamarri: stiamo parlando di un mercato dove un cliente può durare anni, e dove creare dei momenti di sfiducia è ben più di una possibilità: è matematica elementare.

Evitate di presentarvi come i salvatori del mondo: da qualche parte fallirete. Se il vostro sito è E LA MIA AGENZIA DI QUI E LA MIA AGENZIA DI LA’ oltre ad essere qualunque ponete delle solide basi per darvi la zappa sui piedi in caso di recriminazioni.
Evitate di essere troppo amichevoli con i clienti (ciao Fu): state erogando un servizio, non offrendo una linea del telefono amico.
Imparate a dire di no, a dire costa ancora, e se non hai budget scusa ma non è colpa mia.
Porsi come fornitori è a volte antipatico: ma è lavoro. E il rigore ci sta.

Non c’è niente di peggio di pensare di avere fatto un ottimo lavoro, e sentirci rinfacciare incompetenza non meritata per le ragioni di cui sopra: è frustrante.

Mi correggo: c’è di peggio — è pensare di essere Ronaldo e fare il più stupido degli autogol.

Spero di avervi dato qualche spunto di riflessione. Commenti graditi.

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Fulvio Romanin
Fulvio Romanin

Written by Fulvio Romanin

Ensoul CEO, old school bboy, part time essayist and novelist. A curious soul overall.

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