Come evitare la fuga dai social network

Fulvio Romanin
10 min readSep 4, 2018

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“Devo continuare a litigare su Facebook? Chi me lo fa fare?”

La sensazione è quella della foto qui sopra. Non negatelo.
Voi siete l’ultimo baluardo di resistenza umana all’inferno zombie.
Voi e pochissimi vostri amici, in una filter bubble in cui circoscrivere il proprio pensiero.
Un esercito di zombie infaticabili, pronti a ribadire ad ondate sempre maggiori concetti sempre più meschini e bassi e clamorosamente sbagliati, pronti a propagare la propria ignoranza ai vostri cari come un virus a suon di morsi, pronti ad abbassare l’asticella dello schifo e dell’indignazione, ogni giorno.

E voi siete da soli.

Siete mortalmente soli: avete scritto una cosa che reputate intelligente — nulla che meriti il Nobel — e se siete un minimo visibili orde di signor nessuno cominceranno a criticarvi in maniera sempre più feroce, prendendo coraggio; il dissenso diventa VAFFANKULO SEI PAKATO!!11! e arriva a minacce sempre meno dismissibili con un sorrisino superiore.
Le pagine social dei quotidiani? Il cuore dell’inferno.

Chi me lo fa fare? si chiedono, guardandosi, i superstiti.
Perché devo sprecare ore della mia giornata lavorativa a litigare con Ciro Cajello o con Faustino Magitronik Ladumbrotti laureato all’università della strada che mi raccontano cose a caso, o palesemente in malafede su argomenti nei quali non hanno minima competenza?

Non voglio darvi subito la mia risposta: vorrei un attimo fare un punto insieme a voi prima di darvi le mie personali conclusioni e ricette.
E vorrei presentarvi il mio criterio di valutazione: non gli anni, ma gli anni di esperienza.

Punto 1: i giovani stanno abbandonando i social
[coherence alert: HO CHIESTO. Non sto facendo il quasi cinquantenne — yikes — che dice “i giovani qui e i giovani lì”. HO CHIESTO. Ho visto le analisi di mercato e articoli autorevoli, ho semplicemente domandato].

Perché i giovani stanno abbandonando Facebook? Una delle plausibili risposte è che, semplicemente, vogliono degli spazi loro da non condividere con zia Cosmesia per non essere giudicati. Da tenera età hanno accesso ad internet, essere connessi per loro non è innovativo, è scontato. Parimenti vedono programmi in TV e online dove la gente viene giudicata per cucina, aspetto, amori: bello e divertente da guardare a volte, sgradevole da subire. I giovani vogliono condividere inter pares con i propri amici le proprie emozioni, non lanciarsi in pseudo abbellimenti da midlife crisis con i propri compagni delle medie per vedere chi ora ha meno capelli e più mercedes.

Fulvio alla cugina quindicenne: “ah beh, come sei cresciuta, mi fa piacere rivederti. Mi aggiungi pure su Facebook?”
“Non ho Facebook, ho solo Instagram”
“Ah, ok, aggiungimi lì allora”
(non mi ha aggiunto)

Punto 2: la luna, il dito.
Tutti noi “educatori social” ed antesignani abbiamo guardato sempre dalla parte sbagliata: o meglio, la tecnologia ci ha spiazzato.
Abbiamo pensato che il vero dovere fosse educare i giovani all’uso corretto di internet. Che è doveroso, ma un po’ come spiegare scuola guida ad un giovanissimo Valentino Rossi.
Mio cugino, a tre anni, accendeva il computer del papà, apriva Skype e chiamava i nonni, per il — legittimo — orgoglio dei genitori.

Così non si può dire di chi non ha avuto modo di imparare passo passo cosa vuol dire vivere internet.
Zia Adelina non avrebbe mai toccato un computer nemmeno ne fosse andato del bene della sua vita. Tastiera, mouse, monitor, modem, aiuto.
Poi arriva lo smartphone. Che non solo è a prova di rottura, ma fa del suo meglio per renderti la vita semplice. Perché è un telefono, accidenti, ed è così che entra nelle vite di tutti, anche se dopo un po’ ti dimentichi che serva per telefonare. È uno strumento comprensibile, rassicurante.
Mio padre, fisico nucleare dell’ENEA di Roma, ha odiato il suo tablet — come tutti i computer — finché non gli ho fatto vedere il tasto indietro, sull’interfaccia, un tasto fisico che io ho chiamato con lui il tasto ODDIO HO PAURA. “Se sbagli qualcosa, allora premi quello”: tranquillizzato il padre, da quel momento avido lettore dei giornali online e di Google Earth.

Comincio a stringere il cerchio del discorso: allo stato attuale, la fascia di persone impreparate ad usare internet era una fascia dai 10 in giù, e la smisurata fascia tra i 40 in su a cui nessuno aveva badato perché forse pensavano non si sarebbero mai avvicinati all’informatica o, se sì, attraverso le tortuose chicanes di tastiera-mouse-modem-monitor.

(figura 1: gli dò questo nome anche perché mi serve per tornarci sopra dopo)

[Caveat importante: in nessuna maniera sto facendo una equazione tipo “gli anziani sono ingenui” o “serve essere un laureato in astrofisica per esprimere un parere” (alzi la manina chi non si è visto apostrofare da un qualche troll ah meno male che sai tutto tu, prof)]

Quello che sto asserendo è che una larga parte della popolazione informaticamente non preparata all’avvento dei social si è vista catapultare in un mondo che non solo non aveva l’esperienza per capire, o del quale non poteva né aveva interesse a verificare il contenuto, ma che di fatto di norma non punisce comportamenti normalmente considerati come pubblicamente inadeguati.

Tutta questa larga fascia di persone sta orientandosi come può tra i meme, le fake news e “bestie” trituradati, e cade palesemente in tranelli che tendono a “soffiare” sull’opinione pubblica a proprio fine.

(la persona della foto è chiaramente Brian May dei Queen. Un mio parente l’ha condiviso senza riconoscerlo)

Qualche anno fa ho fatto fischiare le orecchie ai rappresentanti di un certo qual partito sul fatto che qualcuno giocava sporco sui social. Sorrisini, pacche di circostanza, ed eccoci qua a parlarne, all’opposizione.

Quali sono i punti comuni di queste persone, degli “zombi” iniziali? La profilazione non è impossibile: 40+, con una discreta preponderanza maschile — le donne condividono banner ma passano meno tempo, e con meno testo rispetto ai maschietti, a litigare via commento — con una educazione neanche tanto bassa come i detrattori vorrebbero far pensare, anzi, ma con un elemento importante di fondo. La paura. Paura che a volte giustifica persino la malafede.

La paura di perdere i privilegi già acquisiti: l’approccio “sovranista” ha lo scopo di tagliare fuori quella globalizzazione che sta scuotendo il pianeta ed il mondo del lavoro, riportando indietro l’orologio ai magici anni ’50 del boom economico. Non sta a me dare giudizi — non sono un economista, né voglio entrare in discussioni che non mi competono — ma è un dato innegabile che l’atteggiamento di “esclusione dello straniero” — qualunque esso sia è un vettore potente. Su cui qualcuno soffia sopra con forza.

La paura della povertà e della vecchiaia: e ne hanno ben donde — al netto di wishful thinkings di economisti laureati su Google, il sistema pensionistico da qualche parte nei prossimi dieci anni collasserà. E non saranno (al netto di deliri su “iniezioni etniche” e “piani Kalergi”) gli immigrati a pagarci le pensioni: non saranno sufficienti. Semplicemente, anche se l’Italia aumentasse notevolmente i propri guadagni, l’Italia sarà un posto molto, molto brutto per gli anziani nei prossimi venti anni, anziani che saranno comunque ancora una larga maggioranza — sempre più affamata e sempre più arrabbiata e sola — della popolazione.

(Io non sono imprenditore perché mi piace svegliarmi la notte alle tre con le crisi d’ansia. Lo sono anche perché se non divento ricco ora che ho gli anni “giusti” saranno guai)

La paura di non essere rappresentati, ascoltati, la condivisione come forma tribale di riconoscimento: il Partito Democratico continua la sua picchiata nei sondaggi non perché improvvisamente gli italiani si siano improvvisamente svegliati con il fez e l’olio di ricino portati a casa da Amazon, ma perché ha perso il contatto con la base. I detrattori dicono che il Partito Democratico sia fatto di snob radical chic chiusi nel loro attico al Bosco Verticale: è sciocco e ridicolo, se applicato agli elettori; è un messaggio che può invece sembrare correttamente applicabile per chi guardi i dirigenti di un partito che dopo la batosta renziana sembra un non-luogo anarchico come l’attuale Libia.

In questo scenario (impunità, paura, inesperienza) gli zombi sono voraci, hanno trovato qualcosa da fare di più divertente che non leggere le etichette dei detersivi nel bagno, e hanno voglia di farsi sentire. I leoni da tastiera ruggiscono, si fomentano, e la tensione sociale continua a salire.

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In questo scenario, la voglia di scappare dai social cresce, sicuramente. In un contesto dove l’opinione vale più della conoscenza, nulla è più sensato. La capacità di gestire la razionalità socialmente viene meno.

Quanto può durare questo?
Il mio pronostico è: dai tre ai cinque anni.

Cosa succederà in questi anni?
1. la gente si abituerà a usare internet. Anche il settantacinquenne più ingenuo comincerà a distinguere tra il vero e il falso, al netto degli sforzi della tecnologia di rendersi sempre più efficace in materia.
2. è facile soffiare odio, è difficile mantenere l’odio eterno. L’odio sfoga, l’odio stanca. Si vende bene ma dopo un po’ finisce.
3. Le fasce anagrafiche cambieranno. Il ricambio generazionale creerà problemi diversi in diverse fasce della popolazione, e presto gli immigrati potrebbero non essere un capro espiatorio sufficiente.
4. La fame è fame, e non la nascondi con un banner. Puoi dare la colpa a questo e quello, ma quando non arrivi a fine mese puoi farmi tutta la propaganda che vuoi ma io ho fame. E la fame non scenderà. La migliore propaganda non riempie lo stomaco.

“Ma te sei matto, altri cinque anni in Facebook, ma chi te conosce, io vado su Google Plus o su Ello a guardare il vuoto”.

Bel tentativo, ma i social sono ovunque: sui giornali, sui telegiornali, nella gente che legge accanto a voi in stazione, nei bar. Non è serbandovi in un aristocratico rancore che potrete far finta di niente. Anche perché in questi anni altri come voi potrebbero prendere la medesima strada, lasciando la comunicazione della mente-alveare (che con dolorosa lentezza e mille errori sta prendendo forma, sociologicamente parlando) completamente in balia di chi la usi a proprio tornaconto.

Vi dico quello che faccio io, all’atto pratico.

1. Su Facebook, ho delle liste. Una è quella dei polemici, un’altra è quella del lavoro: se devo pubblicare contenuti sui qual non voglio il saputello-da-riporto che mi pubblica dei link che nemmeno capisce ma che un suo amico che ha fatto le scuole alte gli dice che è bene posta, allora lo rendo invisibile a lui. Predico ai convertiti? Direi meglio: faccio azione su persone che ritengo sensibili, e su qualche indeciso. Con quelli perduti non perdo tempo: il contraddittorio, nel caso tu debba fare “propaganda”, è solo una perdita di tempo ed instillare un dubbio negli indecisi. Uno scemo preparato può fare danni alla presentazione di una tesi: e più irrazionale è il suo commento, più abbasserà il livello di quello che voglio dire.

2. Non siamo tutti amici, per niente. Non lo siamo nella realtà, figuriamoci online. Non vinceremo il premio “Madre Teresa 2018” per non aver dato dell’idiota ad un idiota. Farsi dei nemici va benissimo, come nella vita vera.

3. Pane al pane, vino al vino. Se uno è stupido, bisogna dirglielo. Se uno dice idiozie, bisogna dirglielo. Se il mio interlocutore è laureato all’università della strada e mi viene a spiegare il mio lavoro, ho pieno diritto di dirgli di stare zitto senza troppi se e troppi ma. Come lo farebbe il mio meccanico con il saldatore se gli spiegassi come fare il suo lavoro.
Sono sembrato spocchioso?

4. Vale più un “si si no no ciao” di mille ragionamenti. Se uno non ce la fa, inutile perdere il tempo di entrambi. Apposto così. Quando uno parte con gli “specchi riflessi” o i benaltrismi, il dibattito è già finito.

5. Citare esempi e dati serve e non serve: nel magico mondo di qualunquolandia non esiste autorevolezza, il Guardian vale come lo sciachimicaro di turno, il Sole 24 ore meno di riccionedomani.com. C’è sempre un polemico da riporto preparatissimo con il link con i dati di bastaeuropaentriamoinmalesia.com che dimostrano il contrario di tutto.
Di nuovo: si si no no ciao. Oltre un certo limite di accanimento perdiamo noi di autorevolezza.

6. Non si combatte contro il nemico, si combatte per le proprie truppe.
Il venire a mancare dell’intelligenza online renderà più deboli anche quelli dalla nostra parte. È per loro che dobbiamo restare sui social, per dare loro forza.

7. Proponete contenuti vostri. Propositivi. Intelligenti. Spiritosi. Tristi. Umani. Ma roba vostra: fare la telecronaca compulsiva del mondo ad ogni costo, in battuta sul quotidiano, è un po’ povero e presta il fianco facilmente agli ingegneri minerari e agli immunologi della domenica.
Nessuno vi chiede di essere Dante o Mentana: se non avete niente da dire, non dite niente. Vi vogliamo già bene così e la gente che cerca di rendersi popolare sui social spesso ottiene il risultato opposto.

8. Condividete le notizie, non le opinioni. Se X ha detto che Y pensa Q del soggetto G, non condividetelo, anche se la spara grossissima. Le notizie vanno condivise, non le opinioni. Non diventate la portinaia del web.

Sarà dura, eh. Durissima. Anche perché, scusate la franchezza, dobbiamo ancora vedere il peggio.
Che dire: come Italiani siamo un popolo glorioso, che è caduto e si è rialzato centinaia di volte.
Ora tocca a noi.

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Fulvio Romanin
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Written by Fulvio Romanin

Ensoul CEO, old school bboy, part time essayist and novelist. A curious soul overall.

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